«SONO orgogliosa di essere una Gucci, di aver ereditato un patrimonio, qualunque esso sia, umano, di carattere, di stile e creatività e voglio che la memoria di quella grande storia resti fissata nel tempo». Finisce così a pagina 128 il libro «Gucci. La vera storia di una dinastia di successo» scritto da Patrizia Gucci, della quarta generazione della famosa famiglia di imprenditori che ha fondato col genio di Guccio Gucci il brand nel 1921, uscito ieri nelle librerie per le edizioni Mondadori. «In copertina c’è uno zaino degli anni Sessanta che ho ritrovato in cantina – racconta Patrizia Gucci, pittrice, autrice di quattro piccoli volumi prima di questo racconto autobiografico, stilista, animatrice culturale – e mi sono molto emozionata e commossa quando sull’etichetta ho letto il nome di mio padre, Paolo Gucci. Ho pensato che sarebbe stato quello l’oggetto giusto per raccontare l’eccellenza della manifattura Gucci», racconta Patrizia che vive sempre nella villa di famiglia in città e confessa di aver voluto scrivere questa storia ricca di avventure, gioie e putroppo anche di molti dolori, da molto tempo.
«HO VOLUTO tracciare il ritratto di un’epoca, la nostra, parlando della mia famiglia, di mio padre Paolo e di mia madre Yvonne, del loro amore e della scomparsa prematura di lui nel 1995. Quell’anno è stato un anno di lutti per noi: oltre a mio padre è scomparso tragicamente anche mio cugino Maurizio Gucci e la mia nonna paterna Olwen Price».
Patrizia quanto tempo è passato prima di riuscire a mettere nero su bianco la sua vita e quella delle persone a lei più care?
«Molti anni, ci sono voluti molti anni prima che mi decidessi e ora sono felice di aver scritto questo libro che presenterò a Milano il 26 prossimo con Vittorio Feltri. Poi spero di presentarlo anche a Firenze, magari coinvolgendo il sindaco Dario Nardella. Perchè c’è la storia di Firenze dentro la storia di Gucci. E’ un volume che ho scritto col cuore».
Che effetto le fa sapere che quella che è stata la vostra azienda non è più in mani italiane?
«Ormai Gucci è una multinazionale! Noi non ne siamo più parte da tanti anni. Mi piaceva però che il nostro passato tornasse attuale, specie per la vera fatica di questi geniacci dei Gucci, dal bisnonno Guccio il fondatore a mio nonno Aldo e suo fratello Rodolfo e poi tutti noi cugini e nipoti. Per questi uomini l’azienda era la loro famiglia. Ho fatto anche varie ricerche storiche come quella alla Camera di Commercio di Firenze: qui ho trovato il documento di iscrizione della Gucci, era il 1923 e lo riproduco nel libro».
Com’era la vostra vita quando lei era bambina?
«Attenta e semplice. Piena di affetto. Ricordo con commozione quando mio padre il sabato pomeriggio mi portava nei laboratori di via delle Caldaie e io stavo ore a guardare gli artigiani lavorare. Per scrivere il libro ho cercato uno di loro, Enzo, che ha lavorato con la famiglia Gucci dal 1951 e quando mi ha sentito si è messo a piangere e mi ha detto ‘Suo zio Vasco mi prestò i soldi per comprare la casa’. Ecco questi erano i Gucci».
Le guarda oggi le sfilate del brand?
«No, non mi interessano. Mi fa tristezza rivedere le stesse cose che facevamo noi».
Ha visto il Museo Gucci?
«Sì, non mi è piaciuto, dentro c’è roba brutta».
Nel libro lei racconta anche di una lettera scritta a Francois Henry Pinault, l’attuale proprietario e presidente del brand, per non essere stata invitata all’inaugurazione del Museo…
«Sì, scrissi a Pinault a Parigi ma mi rispose da Casellina l’allora presidente di Marco. E mi invitò alla seconda inaugurazione, non a quella di gala».
Che ricordo ha di Maurizio Gucci?
«Gli ho dedicato un capitolo intero. Sono stata l’ultima a lavorare con lui in azienda, mi occupavo della pubbliche relazioni e dello stile. Mi diceva che ero una ragazza in gamba, mi incoraggiava».